Manifesto due giorni sull’Alta Via

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Manifesto campeggio agosto ’21

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Manifesto iniziativa Universita Occupata

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Manifesto Imbricchiamoci ’17

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IMBRICCHIAMOCI 17

“Imbricchiamoci” è un’esperienza di consapevolezza e lotta vissuta tramite il cammino, l’auto-organizzazione e la convivialità nella natura, che per la sua 17esima edizione ha attraversato il Parco del Beigua in alcune delle sue aree più belle con fiumi, torbiere, stagni e paludi contornate da foreste e montagne splendide.
L’iniziativa svoltasi tra sabato 30 aprile e domenica 2 maggio è volutamente andata a toccare il territorio dove sta prendendo preoccupantemente forma il progetto di una miniera di titanio all’interno e a ridosso del Parco naturale.

È stata la prima iniziativa pubblica reale che a dispetto della diffusa tendenza a virtualizzare le relazioni, ha voluto entrare a contatto con i luoghi che sarebbero devastati nel caso in cui la miniera si realizzasse. Questo contatto è allo stesso tempo fisico perché riguarda il vivere sentieri e boschi che molti di noi frequentano e amano da anni e ideale perché riguarda la salda volontà di difendere la natura dalle speculazioni economiche che il lucro capitalista impone.

L’esperienza è stata partecipata da quasi una quarantina di persone che l’hanno resa autentica e ricca, condividendo conoscenze, fatica, organizzazione, cibo e risate. Ma anche idee e confronto su quello che sarà necessario fare per difendere il parco del Beigua dalla sua devastazione.

Abbiamo acceso la convivialità nonostante la pioggia battente e intensa, il vento e il freddo della notte: ritrovarsi intorno al tiglio secolare di Pianpaludo ha permesso a tutti di capire la bellezza del luogo e l’importanza di difenderlo, attraverso le sensazioni vissute tra il verde del prato e le fronde rigogliose. Sotto e intorno a quell’albero, sul monte Tariné a oltre 900 metri, gli speculatori senza scrupolo vorrebbero sconvolgere il bosco e rivoltare centinaia di miglia di tonnellate di terra, per estrarre un minerale che per loro vale oro ma per tutti noi (e siamo in molti…) significa devastazione e morte.

Siamo partiti, come annunciato. Il viaggio sarà lungo ma non ci spaventa.

Tiglio secolare sul monte Tariné

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IMBRICCHIAMOCI 17 INTERVISTA DI MALARADIO AD UN COMPAGNO DI FUORI CONTROLLO SAVONA

Intervista andata in onda su malaradio il 29/04/2021

due chiacchere sulla prossima edizione di imbricchiamoci e sulla miniera di Titanio nel parco del Beigua

malaradio.noblogs.org

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SAN DIDERO LAVORI COLLETTIVI AL NUOVO PRESIDIO

VENERDI 30 APRILE

Lavori collettivi al nuovo presidio a San Didero ( sul piazzale di fronte al nuovo cantiere)

ore 12 Pranzo condiviso a seguire, lavori sul terreno.( porta attrezzi e materiali)

ore 18 assemblea del nuovo presidio ex autoport

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IMBRICCHIAMOCI 17

                 

Dal 30 aprile al 2 maggio IMBRICCHIAMOCI!

Imbricchiamoci “ letteralmente significa “andare per i bricchi”, quindi
per colline e monti… Ma non è un passatempo o uno svago, piuttosto
esperienza, lotta, vita.

Edizione speciale:
La diciasettesima edizione si svolgerà all’ interno del parco del Beigua per esplorare le zone dove la CET in combutta con altri fanfaroni vorrebbero realizzare la miniera per l’estrazione del Titanio

C.E.T aka Combatti l’Estrazione del Titanio!
Lunga vita alle montagne!!

“Datemi per amici e vicini uomini selvaggi, non addomesticati. La
brutalità del selvaggio non è che un pallido fantasma della spaventosa
ferocia che spinge gli uomini civili e gli amanti l’uno contro l’altro”
(H.D. Thoreau)

Per avere informazioni su  appuntamento di incontro e suu come si svolgeranno i tre giorni scrivere alla mail fuoricontrollo@inventati.org

Aggiornamenti sul canale Telegram Del colore della terra

SOLIDARIETÀ A QUELLI CHE SI RIBELLANO. OVUNQUE!

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VALSUSA. LA DANZA DEI LACRIMOGENI E DEI MANGANELLI

Ad ora più persone continuano a resistere sul tetto del presidio di San Didero e nonostante la massiccia presenza di polizia e il continuo lavorare degli operai  nella notte due compagne sono riuscite in barba alla sbirraglia a raggiungere il tetto del presidio con rifornimenti e per dar il cambio ad altri due compani scesci la sera prima!

Riportiamo un resoconto di quanto accaduto negli ultime giorni tratto dal blog Anarres il pianeta delle utopie concrete

https://www.anarresinfo.org/

Lo sgombero del presidio di San Didero, attuato di notte con enorme dispiegamento di forze, non ha nulla a che fare con l’apertura di un banale cantiere per la realizzazione di un’area di sosta sull’autostrada.
La partita che si gioca qui, come già a Chiomonte, è quella tra lo Stato e una popolazione indisponibile a piegarsi all’imposizione di un’opera utile solo a garantire lauti guadagni alla lobby del cemento e del tondino e ai suoi padrini politici.
Una montagna di soldi pubblici, ora nuovamente disponibili grazie al recovery fund, sono la torta da spartire per fini privatissimi.
Dopo un anno di pandemia, dopo vent’anni di tagli alla sanità, con 500 morti al giorno di covid e tanti altri che muoiono e moriranno per mancanza di prevenzione e cure, il governo continua a devastare e depredare un paese estenuato dalla cementificazione, ridotto alla fame dall’intersecarsi della crisi pandemica con le accelerazioni dell’economia 4.0.
La partita che si gioca in un paesino di montagna, dove diossina ed altri veleni hanno già contaminato la terra grazie ad un’acciaieria che solo la crisi ha chiuso pochi anni fa, va al di là di un parcheggio per i tir.
Il nuovo autoporto costerà più soldi per la recinzione e la continua sorveglianza armata che per la realizzazione dell’infrastruttura autostradale.
Lo Stato deve spezzare le ossa al movimento che quasi 16 anni fa dimostrò che insorgere e vincere era possibile. Questa volta siamo in bassa valle, lungo una strada statale, sotto gli occhi di tutti.
Per questa ragione la carta che stanno giocando è quella della violenza e dell’occupazione militare. Provano a far paura, per evitare che la resistenza cresca e si generalizzi.
A quattro giorni dall’invasione militare un gruppetto di No Tav è ancora sul tetto del presidio, circondato dalla polizia.
Il giorno dello sgombero, martedì 13 aprile, un corteo partito dal centro di San Didero, appena arrivato sulla statale 25 è stato bloccato da un ingente schieramento di polizia.
Subito è partita la danza dei manganelli, dei gas e degli idranti.
I No Tav sono stati gasati più e più volte, provando a resistere come possibile. Per sfuggire ai lacrimogeni tanti si sono dispersi per i prati, cercando di aggirare il blocco di polizia, che ha continuato a sparare gas in ogni direzione. Il vento teso della Val Susa per fortuna soffiava forte in direzione delle truppe dello Stato.
I No Tav sono finiti sui binari della ferrovia, i treni si sono fermati a lungo.
Dopo quasi tre ore i No Tav hanno dovuto indietreggiare sino all’imbocco del paese, dove la polizia ha sparato lacrimogeni sin dentro i cortili delle prime case. Poco prima del centro storico una barricata ha chiuso la via. Solo a questo punto le truppe dello Stato hanno desistito.
Il giorno successivo i No Tav sono tornati in strada, provando ad aggirare per i prati i blocchi sulla statale. C’è stata nuovamente un’invasione dei binari della ferrovia. Ad un certo punto anche la polizia si è piazzata sulla ferrovia. I No Tav sono poi riusciti a raggiungere il piazzale di fronte all’area militarizzata.

Giovedì il coordinamento comitati, riunito a San Didero, ha lanciato tre giorni di campeggio No Tav, che sorgerà in un’area messa a disposizione dal comune, nei pressi del cimitero.
Saranno tre giorni di lotta contro l’occupazione militare.
Il programma di sabato è molto denso. Nelle prime ore del mattino i lavoratori del mercatino, come ogni sabato, proveranno a montare i loro banchi nel piazzale del Baraccone, che, sebbene non sia nell’area del cantiere, è stato occupato dalle camionette della polizia.
Alle 15 sindaci e tecnici faranno una sorta di consiglio comunale aperto in strada.
Nella seconda parte del pomeriggio, intorno alle 17, ci sarà un corteo.
Da un anno il governo ha vietato i cortei. Le misure di contenimento della diffusione del virus sono state usate per limitare le nostre già esili libertà.
Siamo di fronte ad un paradosso: chi lavora è obbligato a stare in ambienti chiusi, senza reali protezioni, ed è costretto a salire su pullman sovraffollati, perché la produzione e circolazione delle merci deve essere garantita ad ogni costo.
Chi invece manifesta in strada è considerato un untore.
Quest’anno di pandemia ha acceso una vivida luce sulla violenza insita in un sistema politico e sociale la cui unica logica è quella del profitto. Le vite dei poveri sono inessenziali, quindi sacrificabili.
É tempo di riprendersi le strade. In Val Susa e in ogni dove.

Ci vediamo sabato 17 a San Didero.

Aggiornamento al 16 aprile. Nella notte, in barba all’imponente dispositivo poliziesco, due compagne hanno raggiunto il presidio della casetta sul tetto con viveri e cambi d’abito, dando il cambio ad altri due che erano scesi la sera precedente. In mattinata la polizia ha replicato tagliando gli alberi intorno al presidio, per fare terra bruciata intorno.

 

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LA ZAD DE LA COLLINE SI OPPONE AL CEMENTO E RISCHIA LO SGOMBERO

DIRETTA RADIO CON UNA COMPAGNA DI LOSANNA CHE PARLA DELLA SITUAZIONE DELLA ZAD DE LA COLLINE NATA IN SVIZZERA NELL’OTTOBRE 2020 SULLE COLLINE A NORD DI LOSANNA PER OPPORSI ALLA DEVASTAZIONE DEL TERRITORIO AD OPERA DELLA MULTINAZIONALE DEL CEMENTO HOLCIM

tratto dalla trasmissione LIBERETION FRONT in onda su RADIO BLACKOUT

ZAD è un neologismo, Zone A Dèfendre, nato in Francia per riferirsi alle occupazioni di territori nate per opporsi ad un progetto di devastazione

La ZAD de la Colline si oppone al cemento e rischia lo sgombero

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CAMPEGGIO RESISTENTE NO TAV

Lunedi 12 aprile intorno all una di notte 1000  cellerini  hanno attaccato, tentando di sgomberare il presidio NOTAV  di San Didero posto sull’ area dove dovrebbe nascere il nuovo autoporto che sostituirà quello già esistente. Ci sono stati violenti scontri fin all’interno del paese di San Didero e 5 persone sin da subito sono salite sul tetto del presidio resistendo fino ad oggi, ad ora sono ancora sul tetto!

Da venerdi 16 aprile inizierà un campeggio resistente

Venerdì 16, sabato 17 e domenica 18, per continuare la mobilitazione permanente in difesa dei terreni di San Didero su cui sorge il presidio ex-autoporto, e per ostacolare i lavori del nuovo ecomostro di cemento, invitiamo tutti e tutte a raggiungerci per un campeggio resistente!

I terreni che ci ospiteranno sono a San Didero nella zona dell’acciaieria, pertanto invitiamo tutte e tutti a portarsi il necessario per campeggiare.

Sarà un momento necessario per confrontarsi, organizzarsi e rispondere in maniera collettiva a quest’ennesimo tentativo di devastazione ambientale e di militarizzazione.

Avanti No Tav!

(Ricordiamo che il venerdì dalle ore 18 si terrà la consuete assemblea del presidio ex-autoporto, che è comunicata ai CC come manifestazione statica e dunque raggiungibile dalle 16 alle 20 in sicurezza anche da altre regioni).

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Il Movimento di Occupazione delle Foreste in Germania: tattiche, strategie e cultura della resistenza [ITA/ENG]

RIPORTIAMO UN APPROFONDIMENTO SUL MOVIMENTO DI OCCUPAZIONE DELLE FORESTE IN GERMANIA, DAL BLOG “LE PIPISTRELLE” (COLLETTIVO ANTISPECISTA ANARCHICO)

Il Movimento di Occupazione delle Foreste in Germania: tattiche, strategie e cultura della resistenza [ITA/ENG]

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COSE’ LA COMPAGNIA EUROPEA DEL TITANIO CET? E CHI C’E’ DIETRO?

Riportiamo di seguito un articolo di una testata online piemontese che approfondisce notizie sulla compagnia europea per il titanio e sui soggetti che gravitano al suo interno.

 

Cuneo: la Compagnia europea presieduta da Risoli – numero due della Bre – cerca il titanio, noi cerchiamo la Compagnia

Gli uffici di corso Soleri: invece della Mab ci sono le targhe di Risoli e Dalmasso

Gli uffici di corso Soleri: invece della Mab ci sono le targhe di Risoli e Dalmasso

Titanio, mangimi, allevamento di suini e mega ufficio commercialista. Mescolando il tutto viene fuori la Compagnia europea per il titanio, la società con sede legale in via XX Settembre a Cuneo, che qualche mese fa ha inoltrato domanda alla Regione Liguria per poter eseguire circa duecento carotaggi nell’area protetta compresa tra i comuni di Urbe e Sassello, nel Parco del Beigua. Campionamenti da uno a 10 chili, per un totale stimato di mille e 250 chili.

L’obiettivo è quello di ricavare il prezioso metallo, molto usato nel settore dell’elettronica. Una società particolare, per la sua attività, che ha destato non poca curiosità per il suo essere “Made in Granda”, nonché presieduta da un noto commercialista cuneese, il dottor Pierfranco Risoli, numero due della Banca Regionale Europea.

Come già scritto da Targatocn, oltre al commercialista, che detiene il 20 per cento delle quote societarie, in visura camerale (data dell’ultimo protocollo 18 novembre del 2014), compongono la Compagnia europea per il titanio (Cet Srl) altri quattro soci: Ugo Benedetto (26,67 per cento di quote) che è anche l’amministratore delegato, Ada Benedetto che ha un pacchetto di quote del 20 per cento, Sara Dalmasso con il 6,67 per cento delle quote ed infine, sempre con il 26,67 per cento di quote, una Srl denominata Mab.

Nomi e società sicuramente meno noti rispetto a quello del dottor Risoli, ma comunque di un certo spessore nel mondo economico della nostra provincia, e non solo. Sara Dalmasso è un dottore commercialista di Peveragno, specializzata in diritto tributario con ufficio a Cuneo, in corso Soleri 3, dove anche il commercialista Risoli ha il suo studio.

Ugo Benedetto e’ un grande allevatore di suini, originario del Monregalese, per la precisione di Castellino Tanaro, dove ha la residenza. Ada Benedetto e’ la sorella di Ugo, vive a Farigliano ed entra nella Cet come persona singola (detiene il 20 per cento delle quote) ma anche attraverso la società denominata Mab che, sempre secondo visura camerale, detiene il 26,67 per cento. Ma chi è questa Mab Srl e soprattutto in che campo opera e di chi è? Per accontentare le curiosità, anche in questo caso, basta leggere la visura camerale, ultimo protocollo 23 novembre 2014.

La Srl ha un capitale sociale di 10.400 euro, proprio come la Compagnia europea per il titanio ed il suo amministratore unico e’ Ada Benedetto, già socia della Cet. Alla voce “attività esercitata” si legge: “gestioni beni immobili propri. Lavori generali di costruzione e ristrutturazioni edifici”. L’amministratore unico detiene il 65 per cento delle quote, Beatrice Ferrero (la figlia) ha il 25 per cento delle quote, mentre le restanti quote (10 per cento) sono della Ferrero Mangimi S.p.a, grande azienda di produzione di mangimi zootecnici, di cui era titolare anche il marito di Ada Benedetto, scomparso qualche anno fa. Sempre secondo visura camerale non risulta che la Srl abbia dipendenti, mentre la sede ha il suo domicilio in Corso Soleri numero 3 a Cuneo. A quel l’indirizzo però, ci sono molti uffici di professionisti – tra i quali, combinazione, quello del dottore commercialista Pierfranco Risoli – ma nessuna traccia della Mab Srl. Certo che le collocazioni delle sedi di Cet e Mab sono a dir poco curiose.

La Compagnia europea per il titanio, ha sede – secondo visura camerale –  in un bel palazzo di via XX Settembre, ma in realtà nulla fa pensare che la Srl operi li’, dove invece c’è un ufficio di promotori finanziari dell’Ubi Banca e una scuola di perfezionamento calcistico, più alcune famiglie residenti. La Mab invece ha sede proprio allo stesso indirizzo dove a Cuneo si trovano gli uffici del dottor Risoli e dalle targhette in bella vista acanto alla porta, nulla che possa ricondurre alla Srl di Ada Benedetto.

I ben informati spiegano che in realtà i due uffici di Cet e Mab, che distano a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, basta svoltare un angolo, siano in realtà collegati tra di loro e che entrambi rientrino nel “pacco di uffici” dove opera il dottore commercialista Risoli. Intanto in Liguria è stata attivata una raccolta firme per impedire ulteriori ispezioni minerarie sul Monte Tarine, nel Parco naturale regionale del Beigua.

TRATTO DA:

https://www.targatocn.it/04/mobile/leggi-notizia/articolo/cuneo-la-compagnia-europea-presieduta-da-risoli-numero-due-della-bre-cerca-il-titanio-noi-cerc.html

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ECOFASCISMO E AUTORITARISMO AMBIENTALISTA

APPROFONDIMENTO TRATTO DA RADIO BLACKOUT CON INTERVISTA A MARCO ARMENIO STORICO DELL’AMBIENTE

I regimi del passato, in particolare quello fascista e quello nazista, hanno strumentalizzato il concetto di territorio, terra e ambiente per ricalcare il valore delle razza e della patria. In particolare la propaganda fascista ha completamente distorto i concetti di ruralità e bonifica, applicando al primo, all’Italiano Rurale, la figura della persona legata alla sua patria, lavoratore obbediente, amante della tradizione. Una storia completamente falsata, poiché è stato in primis il fascismo ad italianizzare le zone rurali e le sue culture e ha creato un proletario agricolo predando le piccole comunità appenniniche-montane. Il concetto di bonifica e di modifica del territorio è stato un leitmotiv della propaganda: la nazione che cambia grazie all’immolazione dei suoi gloriosi lavoratori. Una storia che nasconde i morti di malaria e di fatica nelle zone paludose d’Italia.

Anche oggi i movimenti di estrema destra in tutto il mondo riprendono istanze animaliste e ambientaliste per accaparrarsi un po’ di visibilità, distorcendo in maniera schizofrenica le questioni legate all’ecologia. L’idea di fermare il tracollo climatico e ambientale favorendo la difesa della patria e lo sterminio del resto del mondo, si rivela una tesi misantropa e assurda che permette a gente come Trump o Bolsonaro (negazionisti climatici) di avere il favore di un elettorato “sensibile” al futuro della terra.

Ma c’è una forma ancor più silenziosa e strisciante di ecofascismo, ossia l’autoritarismo ambientalista perpetrato dallo Stato, ma anche da gruppi progressisti ambientalisti che credono in una gestione totalmente tecno-scientifica di quella che proclamano “emergenza climatica”. Già il termine “emergenza” e il modello di gestione che crea, spianano la strada a interventi autoritari e di delega allo Stato. Ma anche la pervasività tecnologica rischia di andare ad ostacolare le pratiche di autoproduzione e intervento collettivo sui territori, minacciando i legami simbiotici tra essere umani e Vivente.

Ne parliamo con Marco Armiero, storico dell’ambiente.
E andiamo a spulciare l’opuscolo “Conoscerli per isolarli” del collettivo Antispefa (https://antispefa.noblogs.org/files/2016/02/Conoscerli-per-isolarli-antispefa-2016.pdf)

Approfondimento tratto da:

ecofascismo e autoritarismo ambientalista

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GEORGIA

Dalla Georgia, per una politica energetica dal basso

Le proteste contro la costruzione del complesso idroelettrico Namakhvani HPP in Georgia rivendicano una politica energetica sostenibile e collettiva per il Caucaso meridionale ed oltre

OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Lo scorso autunno, un piccolo gruppo di abitanti della Valle del Rioni, nella regione montuosa della Racha-Leckhumi in Georgia, ha piantato una tenda accanto al cantiere della compagnia Enka Renewables, per protestare contro la costruzione del più grande progetto idroelettrico del paese: le dighe di Namakhvani.

Dopo oltre quattro mesi, la tenda è ancora nello stesso luogo ma accanto ne sono spuntate altre a testimonianza della crescita oltre ogni aspettativa di questo movimento nato in una delle regioni più marginali del paese. Il 13 marzo 2020 oltre cinquemila persone si sono unite ai Guardianə* della Valle del Rioni – nome con il quale adesso sono conosciuti in tutto il paese e oltre – per protestare contro questa infrastruttura.

 

La volontà è quella di opporsi alla logica estrattiva che caratterizza la politica energetica promossa dal governo georgiano, e supportata da molteplici istituzioni internazionali sotto l’ombrello della transizione, e promuovere invece fonti di energia rinnovabile.

 

Nell’ultimo decennio, l’imperativo di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili ha acquisito un posto centrale nelle strategie di sviluppo infrastrutturale sostenute dalle banche internazionali come la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), Banca d’Investimento Europea ed il Fondo Monetario Internazionale che hanno dirottato un’ingente proporzione dei loro investimenti verso fonti rinnovabili.

Se non ci sono dubbi sull’urgenza di investire in una produzione energetica che sia sostenibile per l’ambiente e le popolazioni a livello globale, questo stesso obiettivo viene simultaneamente negato dalle pratiche che sostengono la “transizione” in corso. Nella realtà, troppo spesso i nuovi circuiti energetici riproducono logiche estrattive simili a quelle che marcano il petro-capitalismo, rinnovando così lo sfruttamento degli ecosistemi, e di coloro che li popolano, a favore del profitto delle multinazionali dell’energia.

In Georgia, uno dei paesi con il maggior investimento pro-capite da parte della BEARS – banca che fu creata per governare una transizione precedente, quella dall’economia pianificata al mercato, e che continua ad essere un attore centrale in tutto lo spazio post-socialista – lo sfruttamento dell’energia idroelettrica è un pilastro della strategia energetica dell’attuale governo.

 

O almeno così viene ripetuto da vari ministri, nonostante l’effettiva mancanza di un documento completo e approfondito che esponga questa strategia.

 

Malgrado questa assenza ingombrante, più di 100 dighe di varie misure sono attualmente in cantiere tra le varie regioni del paese. Osservando lo scontro attuale attorno allo sviluppo del complesso di Namakhvani è possibile distinguere alcuni dei molteplici fili che convergono nelle lotte contro le grandi dighe, in Georgia come in tutto lo spazio post-socialista, e tracciare i contorni di una nuova politica energetica, più equa e realmente sostenibile.

 

RISCHI VECCHI E NUOVI

Alla base dell’opposizione contro le dighe di Namakhvani c’è la constatazione dei molteplici rischi ambientali connessi a questa infrastruttura. Diversi gruppi di scienziati si sono uniti agli abitanti locali nel criticare la mancanza di valutazioni ambientali necessarie per l’approvazione di un progetto così ingente. In particolare, i rischi sismici sono allarmanti, come ha fatto ripetutamente notare Tea Godolaze, la direttrice dell’Istituto di Scienze Geofisiche dell’Università Statale Ilia a Tbilisi.

Oltre alla possibilità di scatenare terremoti di varia intensità e moltiplicare le slavine già frequenti nella valle, l’impatto della diga sui livelli di umidità del territorio rischia di sradicare un numero considerevole di specie di flora endemiche come, per esempio, la vite Tvishi (da cui viene prodotto l’omonimo vino): una varietà pregiata e unica di questo territorio, alla base di un modello di sviluppo sostenuto e condiviso dagli abitanti della valle.

 

Se l’impatto dell’infrastruttura sull’ambiente e le popolazioni della valle compongono il primo, fondamentale, livello dell’attuale lotta, nel corso delle proteste sono emersi altri aspetti che costituiscono un cardine cruciale all’espansione del movimento al di là della regione e dell’intero paese.

 

Con il progredire delle proteste nell’inverno del 2020 e la crescita di sostenitori provenienti da fasce eterogenee della società georgiana, anche l’analisi alla base del movimento è diventata più complessa, arrivando ad articolare molte domande critiche su molteplici livelli. È stato messo in discussione l’utilizzo di una proporzione sempre più alta della produzione energetica locale (fino al 10%) per il bitcoin mining – un’attività ad altissimo consumo energetico e con benefici sociali pari a zero, anche grazie al regime fiscale del paese basato sulla flat-tax e infinite agevolazioni per gli investimenti privati.

In altre parole, il movimento ha iniziato ad andare oltre le questioni di ingiustizia locali mettendo in discussione la politica del settore energetico in sé. Nell’Est post-socialista, le lotte ambientali degli ultimi decenni sono state spesso reticenti nell’articolare rivendicazioni apertamente anticapitalistiche.

Le proteste per salvare la valle del Rioni, forse per la prima volta in maniera così estesa, stanno aprendo uno spazio di opposizione corale e molteplice alle politiche di sviluppo imposte all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica. Politiche riprodotte negli anni da governi successivi sotto lo slogan di “there is no other way” (non c’è alternativa) “di thatcheriana memoria”.

Uno dei momenti centrali per la campagna è stata la pubblicazione del contratto tra l’azienda turca, Enka Renewables, e lo stato georgiano in palese contraddizione con le dichiarazioni del governo che dipingevano Namakhvani come un tassello fondamentale per l’indipendenza energetica del paese e per una fornitura di elettricità sostenibile e, soprattutto, economica.

Il contratto è l’ennesima testimonianza della sottomissione di risorse pubbliche da parte delle élites politiche locali agli interessi del capitale internazionale. In primo luogo, dal contratto si evince che, ancor prima che le valutazioni d’impatto ambientale – poi rivelatesi inadeguate – fossero presentate dalla corporazione, Enka, che aveva acquisito un territorio di 600 ettari nella valle per 99 anni al prezzo simbolico di 1 euro.

Ancora di più, nell’accordo lo stato offre infinite garanzie all’azienda: oltre a fornire i terreni e le connessioni infrastrutturali per l’esportazione dell’elettricità, finanziate con fondi pubblici (tramite prestiti sanzionati della BERS), il governo s’impegna ad acquistare elettricità prodotta dall’infrastruttura ad un prezzo fisso – che in alcune stagioni è superiore al costo dell’elettricità importata – per 15 anni.

 

E ha anche l’obbligo di pagare una quota annuale all’azienda, anche nel caso che quest’ultima non riesca a produrre la quantità indicata di elettricità. Tutto questo in cambio di un investimento di 800 milioni di dollari da parte della compagnia verso lo sviluppo del complesso idroelettrico.

 

I termini di questo accordo sono tristemente familiari per chiunque si sia occupato delle relazioni tra stato e capitale mediate dalle grandi infrastrutture nei passati decenni, non solo in paesi periferici come la Georgia ma a livello globale. È proprio, però, nel prendere atto di queste logiche, tanto distruttive quanto ripetute, alla base dell’attuale transizione verso l’energia rinnovabile nel Caucaso Meridionale, che il movimento per salvare la Valle del Rioni sta estendendo i suoi confini.

 

ALTRE ENERGIE

La resistenza nella valle di Rioni è l’ultima di una serie di mobilitazioni contro progetti simili in altre regioni montuose della Georgia dove scorrono i fiumi al centro della recente corsa all’idroenergia. Pertanto, si possono vedere i Guardiani della Valle come parte di un movimento più ampio in opposizione a grandi opere progettate e costruite senza alcuna attenzione per le popolazioni e gli ecosistemi che attraversano.

 

Questo movimento eterogeneo si reincarna in varie lotte, oltre i confini georgiani, non tutte ancora perfettamente connesse ma che accumulano progressivamente conoscenza ed esperienza, oltre a sostenersi a vicenda.

 

Non è un caso che nelle critiche articolate dai Guardiani della Valle si possano ora scorgere echi di altre opposizioni a mega infrastrutture: dalla lotta contro la TAP, che passando per la Georgia arriva fino alle sponde pugliesi di Melendugno per rifornire di gas naturale il Nord d’Europa, al conflitto pluridecennale contro la TAV.

È esattamente da queste connessioni che l’emergente forza della lotta contro Namakhvani si nutre, ponendo lentamente le basi per una politica energetica che ha trovato le sue radici nel conflitto contro le logiche estrattive promosse da stati e corporazioni.

Da un lato, nel contesto georgiano questa lotta ha già creato un precedente unico di mobilitazione autorganizzata di massa che ha trovato il sostegno di varie regioni della Georgia e che unisce una molteplicità e complessità di istanze ed intersezioni alla base della marginalizzazione di una gran parte della popolazione georgiana.

 

Maka Suladze, una delle leader del movimento Save the Rioni Valley. Schermata dal cortometraggio Land, Water (Nino Gogua e Eka Tsotsoria, 2020)

 

Dall’altro, un massiccio, e inaspettato, sostegno è arrivato da parte delle comunità migranti sparse in Europa: un esempio è stato, il 23 febbraio scorso, il presidio sotto l’ambasciata georgiana a Roma, a sostegno delle proteste di Kutaisi. A tessere insieme i vari elementi di questa protesta ed incitare il supporto di così tante persone sono state senz’altro le persistenti tattiche di mobilitazione dei Guardiani della Valle del Rioni, la loro capacità di resistenza di fronte alle strategie repressive dello stato e le posizioni etiche che hanno assunto.

Queste non si limitano solo alla difesa del territorio al quale i Guardiani della valle del Rioni si sentono di appartenere ma anche e sempre più articolano un’opposizione a quella che di fatto è stata l’unica direzione della politica economica dei passati 30 anni in Georgia, caratterizzata da un’apertura totale verso investimenti privati in ogni ambito: dalla sanità, all’energia, alle speculazioni immobiliari, fino all’ ultima frontiera delle crypto-currencies.

Uno sviluppo energetico realmente sostenibile deve distanziarsi permanentemente dalla logica che pone le diverse fonti energetiche come risorse da estrarre e sfruttare con la maggior intensità possibile: in pochi secoli, l’impatto di queste operazioni ha lasciato un marchio irreversibile sugli equilibri del pianeta. Con la loro composizione eterogenea ed in continua espansione lotte come quella contro le dighe di Namakhvani pongono le basi per una politica energetica antagonistica a queste logiche, denunciando il ruolo delle grandi opere infrastrutturali nel prolungarne l’esistenza.

* In georgiano è di genere neutro.

Tutte le foto, eccetto dove indicato, di Fair Energy Politics Collective.

Fair Energy Politics Collective (სამართლიანი ენერგოპოლიტიკისთვის) è una rete che mette insieme individui e gruppi nella lotta per una politica energetica sostenibile e realmente comune, in Georgia ed oltre. La piattaforma è nata Tbilisi nel 2020 per supportare le proteste contro le dighe di Namakhvani e Oni, in Racha-Leckhumi. Qui per supportare le loro lotte!

ARTOCOLO PUBBLICATO IL 31 MARZO 2021 E TRATTO DA:

Dalla Georgia, per una politica energetica dal basso – DINAMOpress

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