Il Movimento di Occupazione delle Foreste in Germania: tattiche, strategie e cultura della resistenza [ITA/ENG]

RIPORTIAMO UN APPROFONDIMENTO SUL MOVIMENTO DI OCCUPAZIONE DELLE FORESTE IN GERMANIA, DAL BLOG “LE PIPISTRELLE” (COLLETTIVO ANTISPECISTA ANARCHICO)

Il Movimento di Occupazione delle Foreste in Germania: tattiche, strategie e cultura della resistenza [ITA/ENG]

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COSE’ LA COMPAGNIA EUROPEA DEL TITANIO CET? E CHI C’E’ DIETRO?

Riportiamo di seguito un articolo di una testata online piemontese che approfondisce notizie sulla compagnia europea per il titanio e sui soggetti che gravitano al suo interno.

 

Cuneo: la Compagnia europea presieduta da Risoli – numero due della Bre – cerca il titanio, noi cerchiamo la Compagnia

Gli uffici di corso Soleri: invece della Mab ci sono le targhe di Risoli e Dalmasso

Gli uffici di corso Soleri: invece della Mab ci sono le targhe di Risoli e Dalmasso

Titanio, mangimi, allevamento di suini e mega ufficio commercialista. Mescolando il tutto viene fuori la Compagnia europea per il titanio, la società con sede legale in via XX Settembre a Cuneo, che qualche mese fa ha inoltrato domanda alla Regione Liguria per poter eseguire circa duecento carotaggi nell’area protetta compresa tra i comuni di Urbe e Sassello, nel Parco del Beigua. Campionamenti da uno a 10 chili, per un totale stimato di mille e 250 chili.

L’obiettivo è quello di ricavare il prezioso metallo, molto usato nel settore dell’elettronica. Una società particolare, per la sua attività, che ha destato non poca curiosità per il suo essere “Made in Granda”, nonché presieduta da un noto commercialista cuneese, il dottor Pierfranco Risoli, numero due della Banca Regionale Europea.

Come già scritto da Targatocn, oltre al commercialista, che detiene il 20 per cento delle quote societarie, in visura camerale (data dell’ultimo protocollo 18 novembre del 2014), compongono la Compagnia europea per il titanio (Cet Srl) altri quattro soci: Ugo Benedetto (26,67 per cento di quote) che è anche l’amministratore delegato, Ada Benedetto che ha un pacchetto di quote del 20 per cento, Sara Dalmasso con il 6,67 per cento delle quote ed infine, sempre con il 26,67 per cento di quote, una Srl denominata Mab.

Nomi e società sicuramente meno noti rispetto a quello del dottor Risoli, ma comunque di un certo spessore nel mondo economico della nostra provincia, e non solo. Sara Dalmasso è un dottore commercialista di Peveragno, specializzata in diritto tributario con ufficio a Cuneo, in corso Soleri 3, dove anche il commercialista Risoli ha il suo studio.

Ugo Benedetto e’ un grande allevatore di suini, originario del Monregalese, per la precisione di Castellino Tanaro, dove ha la residenza. Ada Benedetto e’ la sorella di Ugo, vive a Farigliano ed entra nella Cet come persona singola (detiene il 20 per cento delle quote) ma anche attraverso la società denominata Mab che, sempre secondo visura camerale, detiene il 26,67 per cento. Ma chi è questa Mab Srl e soprattutto in che campo opera e di chi è? Per accontentare le curiosità, anche in questo caso, basta leggere la visura camerale, ultimo protocollo 23 novembre 2014.

La Srl ha un capitale sociale di 10.400 euro, proprio come la Compagnia europea per il titanio ed il suo amministratore unico e’ Ada Benedetto, già socia della Cet. Alla voce “attività esercitata” si legge: “gestioni beni immobili propri. Lavori generali di costruzione e ristrutturazioni edifici”. L’amministratore unico detiene il 65 per cento delle quote, Beatrice Ferrero (la figlia) ha il 25 per cento delle quote, mentre le restanti quote (10 per cento) sono della Ferrero Mangimi S.p.a, grande azienda di produzione di mangimi zootecnici, di cui era titolare anche il marito di Ada Benedetto, scomparso qualche anno fa. Sempre secondo visura camerale non risulta che la Srl abbia dipendenti, mentre la sede ha il suo domicilio in Corso Soleri numero 3 a Cuneo. A quel l’indirizzo però, ci sono molti uffici di professionisti – tra i quali, combinazione, quello del dottore commercialista Pierfranco Risoli – ma nessuna traccia della Mab Srl. Certo che le collocazioni delle sedi di Cet e Mab sono a dir poco curiose.

La Compagnia europea per il titanio, ha sede – secondo visura camerale –  in un bel palazzo di via XX Settembre, ma in realtà nulla fa pensare che la Srl operi li’, dove invece c’è un ufficio di promotori finanziari dell’Ubi Banca e una scuola di perfezionamento calcistico, più alcune famiglie residenti. La Mab invece ha sede proprio allo stesso indirizzo dove a Cuneo si trovano gli uffici del dottor Risoli e dalle targhette in bella vista acanto alla porta, nulla che possa ricondurre alla Srl di Ada Benedetto.

I ben informati spiegano che in realtà i due uffici di Cet e Mab, che distano a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, basta svoltare un angolo, siano in realtà collegati tra di loro e che entrambi rientrino nel “pacco di uffici” dove opera il dottore commercialista Risoli. Intanto in Liguria è stata attivata una raccolta firme per impedire ulteriori ispezioni minerarie sul Monte Tarine, nel Parco naturale regionale del Beigua.

TRATTO DA:

https://www.targatocn.it/04/mobile/leggi-notizia/articolo/cuneo-la-compagnia-europea-presieduta-da-risoli-numero-due-della-bre-cerca-il-titanio-noi-cerc.html

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ECOFASCISMO E AUTORITARISMO AMBIENTALISTA

APPROFONDIMENTO TRATTO DA RADIO BLACKOUT CON INTERVISTA A MARCO ARMENIO STORICO DELL’AMBIENTE

I regimi del passato, in particolare quello fascista e quello nazista, hanno strumentalizzato il concetto di territorio, terra e ambiente per ricalcare il valore delle razza e della patria. In particolare la propaganda fascista ha completamente distorto i concetti di ruralità e bonifica, applicando al primo, all’Italiano Rurale, la figura della persona legata alla sua patria, lavoratore obbediente, amante della tradizione. Una storia completamente falsata, poiché è stato in primis il fascismo ad italianizzare le zone rurali e le sue culture e ha creato un proletario agricolo predando le piccole comunità appenniniche-montane. Il concetto di bonifica e di modifica del territorio è stato un leitmotiv della propaganda: la nazione che cambia grazie all’immolazione dei suoi gloriosi lavoratori. Una storia che nasconde i morti di malaria e di fatica nelle zone paludose d’Italia.

Anche oggi i movimenti di estrema destra in tutto il mondo riprendono istanze animaliste e ambientaliste per accaparrarsi un po’ di visibilità, distorcendo in maniera schizofrenica le questioni legate all’ecologia. L’idea di fermare il tracollo climatico e ambientale favorendo la difesa della patria e lo sterminio del resto del mondo, si rivela una tesi misantropa e assurda che permette a gente come Trump o Bolsonaro (negazionisti climatici) di avere il favore di un elettorato “sensibile” al futuro della terra.

Ma c’è una forma ancor più silenziosa e strisciante di ecofascismo, ossia l’autoritarismo ambientalista perpetrato dallo Stato, ma anche da gruppi progressisti ambientalisti che credono in una gestione totalmente tecno-scientifica di quella che proclamano “emergenza climatica”. Già il termine “emergenza” e il modello di gestione che crea, spianano la strada a interventi autoritari e di delega allo Stato. Ma anche la pervasività tecnologica rischia di andare ad ostacolare le pratiche di autoproduzione e intervento collettivo sui territori, minacciando i legami simbiotici tra essere umani e Vivente.

Ne parliamo con Marco Armiero, storico dell’ambiente.
E andiamo a spulciare l’opuscolo “Conoscerli per isolarli” del collettivo Antispefa (https://antispefa.noblogs.org/files/2016/02/Conoscerli-per-isolarli-antispefa-2016.pdf)

Approfondimento tratto da:

ecofascismo e autoritarismo ambientalista

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GEORGIA

Dalla Georgia, per una politica energetica dal basso

Le proteste contro la costruzione del complesso idroelettrico Namakhvani HPP in Georgia rivendicano una politica energetica sostenibile e collettiva per il Caucaso meridionale ed oltre

OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Lo scorso autunno, un piccolo gruppo di abitanti della Valle del Rioni, nella regione montuosa della Racha-Leckhumi in Georgia, ha piantato una tenda accanto al cantiere della compagnia Enka Renewables, per protestare contro la costruzione del più grande progetto idroelettrico del paese: le dighe di Namakhvani.

Dopo oltre quattro mesi, la tenda è ancora nello stesso luogo ma accanto ne sono spuntate altre a testimonianza della crescita oltre ogni aspettativa di questo movimento nato in una delle regioni più marginali del paese. Il 13 marzo 2020 oltre cinquemila persone si sono unite ai Guardianə* della Valle del Rioni – nome con il quale adesso sono conosciuti in tutto il paese e oltre – per protestare contro questa infrastruttura.

 

La volontà è quella di opporsi alla logica estrattiva che caratterizza la politica energetica promossa dal governo georgiano, e supportata da molteplici istituzioni internazionali sotto l’ombrello della transizione, e promuovere invece fonti di energia rinnovabile.

 

Nell’ultimo decennio, l’imperativo di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili ha acquisito un posto centrale nelle strategie di sviluppo infrastrutturale sostenute dalle banche internazionali come la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), Banca d’Investimento Europea ed il Fondo Monetario Internazionale che hanno dirottato un’ingente proporzione dei loro investimenti verso fonti rinnovabili.

Se non ci sono dubbi sull’urgenza di investire in una produzione energetica che sia sostenibile per l’ambiente e le popolazioni a livello globale, questo stesso obiettivo viene simultaneamente negato dalle pratiche che sostengono la “transizione” in corso. Nella realtà, troppo spesso i nuovi circuiti energetici riproducono logiche estrattive simili a quelle che marcano il petro-capitalismo, rinnovando così lo sfruttamento degli ecosistemi, e di coloro che li popolano, a favore del profitto delle multinazionali dell’energia.

In Georgia, uno dei paesi con il maggior investimento pro-capite da parte della BEARS – banca che fu creata per governare una transizione precedente, quella dall’economia pianificata al mercato, e che continua ad essere un attore centrale in tutto lo spazio post-socialista – lo sfruttamento dell’energia idroelettrica è un pilastro della strategia energetica dell’attuale governo.

 

O almeno così viene ripetuto da vari ministri, nonostante l’effettiva mancanza di un documento completo e approfondito che esponga questa strategia.

 

Malgrado questa assenza ingombrante, più di 100 dighe di varie misure sono attualmente in cantiere tra le varie regioni del paese. Osservando lo scontro attuale attorno allo sviluppo del complesso di Namakhvani è possibile distinguere alcuni dei molteplici fili che convergono nelle lotte contro le grandi dighe, in Georgia come in tutto lo spazio post-socialista, e tracciare i contorni di una nuova politica energetica, più equa e realmente sostenibile.

 

RISCHI VECCHI E NUOVI

Alla base dell’opposizione contro le dighe di Namakhvani c’è la constatazione dei molteplici rischi ambientali connessi a questa infrastruttura. Diversi gruppi di scienziati si sono uniti agli abitanti locali nel criticare la mancanza di valutazioni ambientali necessarie per l’approvazione di un progetto così ingente. In particolare, i rischi sismici sono allarmanti, come ha fatto ripetutamente notare Tea Godolaze, la direttrice dell’Istituto di Scienze Geofisiche dell’Università Statale Ilia a Tbilisi.

Oltre alla possibilità di scatenare terremoti di varia intensità e moltiplicare le slavine già frequenti nella valle, l’impatto della diga sui livelli di umidità del territorio rischia di sradicare un numero considerevole di specie di flora endemiche come, per esempio, la vite Tvishi (da cui viene prodotto l’omonimo vino): una varietà pregiata e unica di questo territorio, alla base di un modello di sviluppo sostenuto e condiviso dagli abitanti della valle.

 

Se l’impatto dell’infrastruttura sull’ambiente e le popolazioni della valle compongono il primo, fondamentale, livello dell’attuale lotta, nel corso delle proteste sono emersi altri aspetti che costituiscono un cardine cruciale all’espansione del movimento al di là della regione e dell’intero paese.

 

Con il progredire delle proteste nell’inverno del 2020 e la crescita di sostenitori provenienti da fasce eterogenee della società georgiana, anche l’analisi alla base del movimento è diventata più complessa, arrivando ad articolare molte domande critiche su molteplici livelli. È stato messo in discussione l’utilizzo di una proporzione sempre più alta della produzione energetica locale (fino al 10%) per il bitcoin mining – un’attività ad altissimo consumo energetico e con benefici sociali pari a zero, anche grazie al regime fiscale del paese basato sulla flat-tax e infinite agevolazioni per gli investimenti privati.

In altre parole, il movimento ha iniziato ad andare oltre le questioni di ingiustizia locali mettendo in discussione la politica del settore energetico in sé. Nell’Est post-socialista, le lotte ambientali degli ultimi decenni sono state spesso reticenti nell’articolare rivendicazioni apertamente anticapitalistiche.

Le proteste per salvare la valle del Rioni, forse per la prima volta in maniera così estesa, stanno aprendo uno spazio di opposizione corale e molteplice alle politiche di sviluppo imposte all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica. Politiche riprodotte negli anni da governi successivi sotto lo slogan di “there is no other way” (non c’è alternativa) “di thatcheriana memoria”.

Uno dei momenti centrali per la campagna è stata la pubblicazione del contratto tra l’azienda turca, Enka Renewables, e lo stato georgiano in palese contraddizione con le dichiarazioni del governo che dipingevano Namakhvani come un tassello fondamentale per l’indipendenza energetica del paese e per una fornitura di elettricità sostenibile e, soprattutto, economica.

Il contratto è l’ennesima testimonianza della sottomissione di risorse pubbliche da parte delle élites politiche locali agli interessi del capitale internazionale. In primo luogo, dal contratto si evince che, ancor prima che le valutazioni d’impatto ambientale – poi rivelatesi inadeguate – fossero presentate dalla corporazione, Enka, che aveva acquisito un territorio di 600 ettari nella valle per 99 anni al prezzo simbolico di 1 euro.

Ancora di più, nell’accordo lo stato offre infinite garanzie all’azienda: oltre a fornire i terreni e le connessioni infrastrutturali per l’esportazione dell’elettricità, finanziate con fondi pubblici (tramite prestiti sanzionati della BERS), il governo s’impegna ad acquistare elettricità prodotta dall’infrastruttura ad un prezzo fisso – che in alcune stagioni è superiore al costo dell’elettricità importata – per 15 anni.

 

E ha anche l’obbligo di pagare una quota annuale all’azienda, anche nel caso che quest’ultima non riesca a produrre la quantità indicata di elettricità. Tutto questo in cambio di un investimento di 800 milioni di dollari da parte della compagnia verso lo sviluppo del complesso idroelettrico.

 

I termini di questo accordo sono tristemente familiari per chiunque si sia occupato delle relazioni tra stato e capitale mediate dalle grandi infrastrutture nei passati decenni, non solo in paesi periferici come la Georgia ma a livello globale. È proprio, però, nel prendere atto di queste logiche, tanto distruttive quanto ripetute, alla base dell’attuale transizione verso l’energia rinnovabile nel Caucaso Meridionale, che il movimento per salvare la Valle del Rioni sta estendendo i suoi confini.

 

ALTRE ENERGIE

La resistenza nella valle di Rioni è l’ultima di una serie di mobilitazioni contro progetti simili in altre regioni montuose della Georgia dove scorrono i fiumi al centro della recente corsa all’idroenergia. Pertanto, si possono vedere i Guardiani della Valle come parte di un movimento più ampio in opposizione a grandi opere progettate e costruite senza alcuna attenzione per le popolazioni e gli ecosistemi che attraversano.

 

Questo movimento eterogeneo si reincarna in varie lotte, oltre i confini georgiani, non tutte ancora perfettamente connesse ma che accumulano progressivamente conoscenza ed esperienza, oltre a sostenersi a vicenda.

 

Non è un caso che nelle critiche articolate dai Guardiani della Valle si possano ora scorgere echi di altre opposizioni a mega infrastrutture: dalla lotta contro la TAP, che passando per la Georgia arriva fino alle sponde pugliesi di Melendugno per rifornire di gas naturale il Nord d’Europa, al conflitto pluridecennale contro la TAV.

È esattamente da queste connessioni che l’emergente forza della lotta contro Namakhvani si nutre, ponendo lentamente le basi per una politica energetica che ha trovato le sue radici nel conflitto contro le logiche estrattive promosse da stati e corporazioni.

Da un lato, nel contesto georgiano questa lotta ha già creato un precedente unico di mobilitazione autorganizzata di massa che ha trovato il sostegno di varie regioni della Georgia e che unisce una molteplicità e complessità di istanze ed intersezioni alla base della marginalizzazione di una gran parte della popolazione georgiana.

 

Maka Suladze, una delle leader del movimento Save the Rioni Valley. Schermata dal cortometraggio Land, Water (Nino Gogua e Eka Tsotsoria, 2020)

 

Dall’altro, un massiccio, e inaspettato, sostegno è arrivato da parte delle comunità migranti sparse in Europa: un esempio è stato, il 23 febbraio scorso, il presidio sotto l’ambasciata georgiana a Roma, a sostegno delle proteste di Kutaisi. A tessere insieme i vari elementi di questa protesta ed incitare il supporto di così tante persone sono state senz’altro le persistenti tattiche di mobilitazione dei Guardiani della Valle del Rioni, la loro capacità di resistenza di fronte alle strategie repressive dello stato e le posizioni etiche che hanno assunto.

Queste non si limitano solo alla difesa del territorio al quale i Guardiani della valle del Rioni si sentono di appartenere ma anche e sempre più articolano un’opposizione a quella che di fatto è stata l’unica direzione della politica economica dei passati 30 anni in Georgia, caratterizzata da un’apertura totale verso investimenti privati in ogni ambito: dalla sanità, all’energia, alle speculazioni immobiliari, fino all’ ultima frontiera delle crypto-currencies.

Uno sviluppo energetico realmente sostenibile deve distanziarsi permanentemente dalla logica che pone le diverse fonti energetiche come risorse da estrarre e sfruttare con la maggior intensità possibile: in pochi secoli, l’impatto di queste operazioni ha lasciato un marchio irreversibile sugli equilibri del pianeta. Con la loro composizione eterogenea ed in continua espansione lotte come quella contro le dighe di Namakhvani pongono le basi per una politica energetica antagonistica a queste logiche, denunciando il ruolo delle grandi opere infrastrutturali nel prolungarne l’esistenza.

* In georgiano è di genere neutro.

Tutte le foto, eccetto dove indicato, di Fair Energy Politics Collective.

Fair Energy Politics Collective (სამართლიანი ენერგოპოლიტიკისთვის) è una rete che mette insieme individui e gruppi nella lotta per una politica energetica sostenibile e realmente comune, in Georgia ed oltre. La piattaforma è nata Tbilisi nel 2020 per supportare le proteste contro le dighe di Namakhvani e Oni, in Racha-Leckhumi. Qui per supportare le loro lotte!

ARTOCOLO PUBBLICATO IL 31 MARZO 2021 E TRATTO DA:

Dalla Georgia, per una politica energetica dal basso – DINAMOpress

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Beigua

manifesto stampato nel 2012 in occasione della ciaspolata di protesta contro il progetto della miniera di titanio nel parco del Beigua

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NO TAV

3 e 5 aprile : iniziative a San Didero

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Hambach

STORIA DELLA FORESTA DI HAMBI

Prima che la RWE Rheinisch-Westfälische Elektrizitätswerke (German Power Supplier) iniziasse la distruzione della foresta, questa zona si chiamava ancora Burgewald (Rocca del bosco). 
Il cambio di nome in foresta di Hambach serve anche a questo, a nascondere la lunga storia della foresta e il suo valore in quanto una delle foreste più antiche della Germania. 
Qui segue la storia di Burgewald:
12.000 anni fa il Centro Europa vedeva la fine dell’ultima glaciazione. Lentamente rinverdiva l’Europa Centrale e Occidentale e nei secoli a venire si ricopriva di fitte foreste di faggi.
Solo in pochi altri posti l’ecosistema si sviluppò in modo così vario: ad esempio, nelle paludi, sulle coste, nelle regioni alpine. E solo in pochi luoghi vi erano altre tipologie di foresta al di là di quelle di faggi. Uno di questi luoghi era Burgewald, caratterizzata da un rigoglioso querceto. Trascorsero i millenni e la foresta cresceva e cresceva. Per lunghissimo tempo la Regione fu frequentata da pochissimi uomini: proprio perché la zona era ancora troppo fredda e fangosa …
Le prime testimonianze dell’esistenza di Burgewald risalgono all’VIII secolo d.C.. A quel tempo la foresta apparteneva a Carlo Magno. Alla sua corte si trovava Arnold di Arnoldswieler, un cantastorie. Questi, a conoscenza della precaria situazione di vita degli abitanti della zona, un giorno in cui accompagnò Carlo in una battuta di caccia, lo pregò di regalargli tanta foresta quanta sarebbe stato in grado di attraversare a cavallo durante il
 pasto del re. Carlo acconsentì e Arnold partì di corsa. Si era già accordato con la comunità locale affinchè gli tenessero pronti cavalli freschi e riposati, così che lui, facendo la staffetta, potesse percorrere tutto il perimetro della foresta in una volta sola.
Carlo apprezzò lo stratagemma di Arnold e gli regalò un anello come garanzia che la foresta da quel momento in poi sarebbe stata sua. Arnold donò Burgewald agli abitanti dei villaggi limitrofi e la chiamò “Wald Gottes” (Foresta di Dio). Gli uomini delle comunità limitrofe poterono allora finalmente tornare a raccogliere legna da ardere, funghi e nocciole, e in autunno potevano portare i loro maiali a mangiare le ghiande. Unica regola fondamentale: era vietato abbattere gli alberi. Da quel momento in poi Arnold sarebbe stato venerato nei 15 villaggi circostanti la foresta come un santo.
Da questo momento in poi la foresta diventò un bene comune. Tale sistema era diffuso in tutta Europa: i villaggi erano delimitati da ampie pianure, foreste e laghi. Non appartenevano a nessuno, non erano privati. Erano sottoposti al controllo e alla cura delle comunità locali, che si incontravano regolarmente per determinare quanti animali ognuno potesse portare al pascolo, quanti pesci potessero essere pescati dai laghi, dove si potessero abbattere gli alberi per costruire. Per secoli gli uomini hanno avuto un rapporto di armonia e scambio con la Natura. Con il passaggio a un’economia capitalista queste zone sono state recintate, privatizzate e la popolazione del luogo è stata costretta a lavorare a pagamento. Gli uomini rischiano più volentieri la loro vita quando lavorano per denaro, e questa è la peggior sorte che possa toccare a un uomo. 
Trascorsero i secoli e gli uomini vissero in buoni rapporti con la foresta. Dal XVI secolo gli arbusti sono stati inseriti in un registro, e una gestione ecosostenibile della foresta è stata registrata per iscritto.
Le comunità limitrofe si sono radunate a date fisse e si sono accordate per l’uso del legno. Nel XVIII secolo la foresta è stata suddivisa in lotti e assegnata alle comunità circostanti, ognuna delle quali era responsabile della sua parte. Questa sarebbe dovuta essere la decisione che avrebbe dovuto influenzare ancora a lungo la foresta. Quando, negli anni ’70, si attuò la riforma del territorio, poichè le comunità non sapevano bene quale pezzo della foresta appartenesse loro, la RWE, allora Rheinbraun, riuscì a farsi vendere la foresta distribuendo bustarelle.
Nello stesso anno, 1978, iniziarono i primi disboscamenti e ora, 40 anni più tardi, sopravvive ancora solo un decimo della superficie originaria.
Cosa ci aspetta in futuro? Questo non si sa, ma è chiaro che la Resistenza si è risvegliata e che prima o poi il Capitalismo avrà una fine, prima di quanto molti penserebbero … 
Articolo tratto da:
https://hambachforest.org/background/the-forest/
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ZAD d’Arlon

Zablière partout! Sull’espulsione della ZAD d’Arlon! Siamo la natura che si difende

March 21, 2021

Lunedì 15 marzo, la ZAD Arlon, è stata sfrattata durante la notte da 150 poliziotti, sostenuti da carri armati e forze speciali della polizia federale, 9 militanti ambientali sul posto sono statx arrestatx. Un militante è attualmente ancora detenuto in prigione.

Questa ZAD [Zone à Defendre, cioè “zona da difendere”, nel senso di zona di terreno occupata e resasi autonoma dall’amministrazione ndt], la prima del suo genere in Belgio, era stata lanciata nell’ottobre 2019, con l’obiettivo di impedire la cementificazione del sito dell’ex Sablière di Schoppach [vecchia cava d’arenaria ndt], di cui 8 dei 31 ettari sono stati riconosciuti come Sito di Grande Interesse Biologico dalla Regione Vallonia. Negli ultimi mesi, vi sono state osservate più di 250 specie diverse di fauna e flora, tra cui diverse specie protette o in pericolo (1).

Mentre questo spazio avrebbe potuto diventare una riserva naturale, le autorità politiche ed economiche locali e la società intercomunale IDELUX, proprietaria del terreno, hanno preso la decisione di sfrattare la ZAD per cementificare il sito e costruire la loro zona. Mentre lo sfruttamento del suolo, la frammentazione del territorio, e quindi la perdita di habitat naturali, sono stati riconosciuti come la prima causa della perdita di biodiversità in Belgio (2). Mentre l’80% degli insetti sono scomparsi in Europa negli ultimi 30 anni (3). Mentre in 15 anni, il numero di uccelli nelle campagne è diminuito del 47% in Vallonia (4). Mentre ogni settimana vengono pubblicati rapporti scientifici sempre più allarmanti che ci ricordano la necessità di cambiare il nostro paradigma e di rivedere profondamente il nostro rapporto con l’ambiente.

Non tenendo conto di nessuno di questi elementi, se non attraverso un palese greenwashing, il potere economico capitalista continua instancabilmente la sua marcia forzata verso il profitto e verso un’illusoria crescita economica, a tutto discapito degli ambienti e delle persone che sfrutta e distrugge.

La ZAD erano corpi e convinzioni contro questo vecchio mondo. Anime spinte dalla necessità di reinventare tutto, di vivere meglio insieme, di confrontarsi, di ‘distruggere la loro distruzione’, perché non possiamo più fare diversamente. Nel cuore di tutta una gioventù, ma non solo, questo luogo rimarrà un formidabile incubatore di impegno. Avrà permesso a tante persone di prendere coscienza della loro forza nell’azione collettiva, e delle possibilità di creare e vivere al di fuori del quadro dominante. Si apriranno altre fratture, statene certi.Forza agli/le militanti arrestatx, forza a tuttx i/le sostenitx della ZAD, forza a tuttx gli esseri senzienti di questo mondo, forza ai tritoni, ai ricci e alle api.

La ZAD di Arlon non c’è più, ZAD ovunque in ogni caso!

“Potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera”.

Pablo Neruda

I MURI PIÙ FORTI CADONO A CAUSA DELLE LORO STESSE CREPE

(1) https://www.facebook.com/zabliere/photos/pcb.467800494654138/467798511321003

(2) https://www.facebook.com/IrruptionMedia/photos/a.140081047435591/234184698025225/

(3) https://up-magazine.info/planete/biodiversite/8414-80-des-insectes-europeens-ont-disparu-en-trente-ans/

(4) https://www.rtbf.be/info/societe/detail_toujours-plus-d-oiseaux-en-voie-de-disparition

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DEL COLORE DELLA TERRA

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RADIO BLACKOUT: CONTRO L’ESTRAZIONE DI TITANIO NEL PARCO DEL BEIGUA

Intervista radio ad un compagno di “Fuoricontrollo” dove si è parlato del progetto di devastazione del territorio della zona del Beigua a favore della miniera di titanio.

Cliccando su questo link è possibile ascoltare il contributo audio in versione integrale:

Contro l’estrazione di titanio nel parco del beigua – Radio Blackout 105.25FM

Il parco naturale del Beigua, in provincia di Savona, da decenni è minacciato dal progetto di costruzione di una miniera di titanio, la cui estrazione avrebbe delle gravi conseguenze ambientali (ma non solo) sul luogo. A farne le spese sarebbero in primo luogo la ricca biodiversità che caratterizza la zona, il patrimonio preistorico riconducibile a questo territorio e la salute di coloro che lo abitano.La miniera, infatti, oltre a necessitare di strade ed infrastrutture irreversibilmente impattanti per l’ambiente, estrarrebbe una pericolosa quantità di amianto (presente per il 15% nella roccia) e andrebbe ad inquinare le fonti idriche della zona.

Micro-asce rituali neolitiche provenienti dal Beigua

Come se non bastasse, il materiale grezzo ottenibile è talmente poco che sarebbe necessaria la costruzione di discariche limitrofe dove depositare il resto del materiale estratto, e la stessa frantumazione del titanio verrebbe appaltata all’estero in mancanza di laboratori (estremamente idrovori ed energivori) adatti a tale lavorazione sul suolo italiano.

Cristallo di titanio

Tra varie montagne russe di permessi, blocchi, ricorsi e battaglie legali, attualmente per la Compagnia Europea del Titanio è in gioco l’autorizzazione per operare dei sondaggi preliminari nella zona, da loro dichiarati non impattanti, ma che di fatto sarebbero il primo passo verso la costruzione della miniera vera e propria.

Ancora una volta, i sostenitori del progetto sventolano la bandiera del progresso e dei benefici economici che ricadrebbero su tutta la regione, senza considerare i danni reali che comporterebbe ed ostacolando le forme di opposizione formale esistenti.

Per iniziare a mobilitarsi contro questa mega-opera, è in fase di preparazione una due-giorni di camminata nella zona sulla linea delle edizioni “Imbricchiamoci” a cura del gruppo Fuori Controllo (vedi approfondimento https://radioblackout.org/podcast/imbricchiamoci-un-approfondimento-sullescursionismo-politico-nel-savonese/), in cui si creeranno dei momenti di confronto e di organizzazione su questa situazione. Rimani aggiornato/a seguendo le prossime puntate di Liberation Front.

 

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